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WAR – La frottola della censura dei conservatori – 07/08/2021

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(Credits: Unsplash)

Le grandi piattaforme di social media sopprimono ingiustamente le voci conservatrici? Da quando, nel 2016, degli ex dipendenti di Facebook hanno paventato la possibilità che alcuni news curators che lavoravano per l’ormai defunta funzione Notizie in tendenza della piattaforma ignorassero volutamente articoli provenienti da testate di destra, questo mito non ha fatto che propagarsi. L’ex presidente Usa Donald Trump ha giocato con questa convinzione per anni – ben prima di essere bandito dai principali social network in seguito all’attacco al Congresso del 6 gennaio – cavalcando spesso, su Twitter e nei propri discorsi, l’onda di indignazione conservatrice contro delle compagnie che avrebbero “il potere incontrollato di censurare, restringere, editare, modificare, nascondere e alterare praticamente ogni forma di comunicazione”. 

La verità, come sempre accade, è un po’ più complessa – e confligge con la convinzione, condivisa dal 90% dei repubblicani statunitensi (e non si sa da quanti altri nel mondo) che le tech company censurino intenzionalmente le posizioni conservatrici. Uno studio approfondito del Center for Business and Human Rights della New York University, pubblicato a inizio 2021, mostra infatti non solo che non c’è alcuna prova del fatto che i grandi social network sopprimano sistematicamente i contenuti di destra, ma anche che, al contrario, ha amplificato a dismisura le voci conservatrici, portandole a raggiungere un pubblico senza precedenti. A ciò si aggiunge il fatto che i vari Ceo delle grandi compagnie della Silicon Valley hanno più volte partecipato a incontri privati con esponenti importanti della destra statunitense proprio per mostrarsi attenti alle loro istanze.

La convinzione che esista una discriminazione anticonservatrice è di per sé una forma di disinformazione, una falsità senza prove affidabili a sostenerla”, conclude il rapporto. “Nessuno studio affidabile su larga scala ha determinato che i contenuti conservatori vengano rimossi per ragioni ideologiche o che le ricerche vengano manipolate per favorire gli interessi liberali”.

Una conclusione che non sembra interessare al numero crescente di “democrazie imperfette” – per usare la terminologia del Democracy Index – che negli ultimi mesi hanno cominciato ad introdurre leggi che intendono punire le piattaforme per questo inesistente bias anti-conservatore. A febbraio, un parlamentare brasiliano appartenente al partito di estrema destra Partido Social Liberal ha presentato un disegno di legge che mira a punire legalmente i moderatori delle grandi piattaforme che rimuovono contenuti, bannano profili o segnalano post, sostanzialmente per impedire loro di esercitare attività editoriali. Soltanto qualche giorno dopo, Jair Bolsonaro stesso minacciava di sanzionare Facebook per via della rimozione di alcuni contenuti dal proprio account – approfittandone anche per attaccare la stampa, dicendo che “la cosa giusta da fare” sarebbe piuttosto rimuovere i post dei principali media brasiliani.

Ancora più diretto l’approccio di Ungheria e Polonia. Già a dicembre 2020, il ministro della Giustizia polacco aveva annunciato di star lavorando a un disegno di legge “volto a rafforzare la libertà di parola degli utenti di internet”, proteggendoli dagli “abusi di gigantesche società di internet”, che ha accusato apertamente di censura. La bozza è stata pubblicata a febbraio, dopo l’espulsione di Trump da Facebook e Twitter, e vuole riscrivere le procedure di rimozione dei contenuti che violano gli standard delle piattaforme: il disegno di legge, infatti, istituirebbe un organismo statale chiamato Consiglio per la libertà di espressione, a cui fare appello in caso la rimozione di un proprio post sia considerata ingiusta. Se le piattaforme dovessero rifiutarsi di seguire le indicazioni del Consiglio, potrebbero essere multate fino a 11 milioni di euro. Le ragioni del governo polacco sono state rese evidenti da Sebastian Kaleta, viceministro della giustizia polacco, secondo cui “i moderatori anonimi dei social media spesso censurano opinioni che non violano la legge ma che criticano soltanto l’agenda della sinistra. Stiamo cercando di proteggere i nostri cittadini dalla loro censura”. Altrettanto chiaro è stato il primo ministro Mateusz Morawiecki, secondo cui la legge è necessaria perché le piattaforme “hanno introdotto dei propri standard di politically correctness e combattono chi vi si oppone”.

Va ancora più in là la ministra della Giustizia ungherese Judit Varga, che ha a sua volta cominciato a lavorare a misure che combattano questo famigerato bias anticonservatore. Per dirla con il Financial Times, “mentre molti paesi dell’Europa occidentale stanno cercando di combattere la diffusione della retorica violenta di estrema destra o estremista basata sulla religione, gli stati dell’Europa orientale affermano di essere intenti a combattere quella che la Varga ha definito una censura deliberata e ideologica sui social media”. Secondo Varga, le piattaforme limiterebbero attivamente “la visibilità di opinioni cristiane, conservatrici e di destra”, manipolando così le elezioni. Sorvoliamo sull’ironia del fatto che in tutti i casi finora noti di manipolazione delle elezioni passate anche attraverso i social network, dagli Stati Uniti alla Brexit, a vincere è stata proprio la destra.

Leggi simili suonano quanto meno in malafede alla luce degli obiettivi assist che i social network continuano a dare da anni alla destra internazionale. Ma questo non vuol certo dire che le attuali pratiche di moderazione dei contenuti online non siano ampiamente migliorabili. Per Paul Barrett, autore del report della New York University, il progresso passa però per una maggiore, effettiva trasparenza attorno alle politiche di moderazione, accompagnata da un maggior numero di moderatori umani (e non algoritmici) e funzioni che permettano agli utenti di decidere quanto stringente vogliono che sia la moderazione dei contenuti che vedono – come ha fatto di recente Instagram. “Solo mettendo dietro di noi certe false convinzioni possiamo iniziare a perseguire seriamente quell’agenda”ha concluso.

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WAR – Non vorrei mai essere troppo trasparente – 24/07/2021

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Sono passati sei anni da quando Facebook, in una delle sue infinite acquisizioni, ha incorporato CrowdTangle. L’idea dietro al potente strumento di social listening, utilizzato ampiamente da giornalisti, ricercatori e altri specialisti dei media, era quella di permettere di monitorare in tempo reale i post e gli account più influenti su Facebook, Instagram, Reddit e Twitter, individuando i temi più caldi della giornata, i post che sono circolati di più, gli articoli più condivisi. Con enorme sgomento di Facebook, però, i giornalisti si sono presto accorti di un’altra virtù di CrowdTangle: il fatto che sia, ad oggi, uno dei pochissimi modi di sbirciare nella scatola nera di metriche della piattaforma social più usata al mondo. Insomma, un involontario strumento di trasparenza.

Soprattutto durante la presidenza Trump, da questo grande potere sono derivate grandi seccature per Facebook: il giornalista del New York Times Kevin Roose, per esempio, gestisce ormai da anni un account Twitter in cui ogni giorno condivide i 10 post pubblici che hanno generato più engagement su Facebook nelle scorse 24 ore, mostrando a tutti come, quasi sempre, siano commentatori e figure pubbliche molto conservatrici a ottenere la maggior attenzione sulla piattaforma. Fior fiore di articoli giornalistici e pubblicazioni accademiche negli ultimi anni hanno esaminato i dati di CrowdTangle per giungere alla conclusione che la piattaforma è inondata di contenuti di destra

Facebook ha provato a rigirare la questione per fare una figura migliore, affermando a più riprese che la metrica più importante a cui guardare per capire quali sono i post che vanno meglio su Facebook sarebbe il reach (ovvero il numero totale di persone che hanno visto un post), e non l’engagement (che comprende tutte le azioni intraprese dagli utenti, inclusi like, commenti e condivisioni). Peccato che quando il team di CrowdTangle ha provato a vedere se riordinando i post più popolari su Facebook in base al reach sarebbe cambiato qualcosa, i conservatori sono risultati comunque in cima alla classifica. Insomma, per dirla con le parole di Nick Clegg, il vicepresidente degli Affari Globali della compagnia, “i nostri stessi strumenti stanno aiutando i giornalisti a consolidare una narrazione negativa”.

Che fare? Tra il farsi qualche domanda sul perché i propri algoritmi favoriscano sistematicamente post incendiari e nascondere tutto sotto il tappeto, Facebook sembra aver optato per… azzoppare CrowdTangle, emarginandone il Ceo e trasferendo gran parte del team. L’idea è quella di sostituire la trasparenza sconveniente dello strumento con dei report periodici pubblicati dall’azienda. Insomma, per dirla con Brian Boland, ex pezzo grosso di Facebook che ha lasciato la compagnia per il proprio approccio miope alla trasparenza, “la dirigenza più anziana dell’azienda non vuole investire nella comprensione dell’impatto che hanno i suoi prodotti principali” e “non vuole rendere disponibili i dati affinché altri possano svolgere questo duro lavoro e metterli di fronte alle loro responsabilità”. 

La stessa morale della favola si evince da un’altra storia che vede come protagonista Facebook in questi giorni: il braccio di ferro tra la compagnia e l’amministrazione Biden, che ha pubblicamente accusato la piattaforma di star peggiorando la pandemia permettendo alla disinformazione di proliferare. Facebook ha negato la propria responsabilità, affermando che starebbe piuttosto aiutando a salvare vite grazie ai propri sforzi a favore delle campagne vaccinali. Ma la questione rimane la stessa: l’azienda di Zuckerberg è l’unica ad avere accesso ai dati che confermerebbero o smentirebbero questa affermazione, e non sembra avere alcuna intenzione di renderli disponibili. Sempre secondo Boland, Facebook ha “senza ombra di dubbio” tutte le informazioni su come e dove si diffondano i contenuti più problematici, ma “non ha mostrato alcun desiderio di essere più trasparente”. 

Il che ci pone di fronte a una domanda scomoda riguardante il concetto stesso di trasparenza, che le grandi piattaforme tecnologiche hanno cominciato ad abbracciare dopo che Edward Snowden ha svelato la campagna di sorveglianza di massa da parte dell’Nsa nel 2013. Oggi, praticamente ogni piattaforma pubblica ha un proprio transparency report in cui racconta al pubblico come ha gestito alcune delle questioni più spinose – come la gestione della privacy, la lotta all’hate speech e alla disinformazione, ma anche le richieste di rimozione dei contenuti da parte dei governi. TikTok ha addirittura aperto dei centri fisici dedicati alla trasparenza. 

Cosa si intenda però con questa parola è un altro discorso. Come scrive Charlie Warzel, per la dirigenza delle piattaforme, la trasparenza non è che una strategia comunicativa. Per tutti gli altri, invece, è una questione di accountability, legata a doppio filo al fatto che le piattaforme raccolgono in modo opaco immense quantità di dati personali senza assumersi quasi alcuna responsabilità nei confronti del pubblico. Sta a ricercatori, attivisti digitali e politici esercitare pressione affinché le due definizioni coincidano sempre di più. Altrimenti, continueremo a trovarci davanti a realtà come lo sventramento di CrowdTangle. O peggio, il ridicolo report sulla trasparenza di compagnie come l’Nso Group, l’azienda di sorveglianza israeliana i cui software vengono utilizzati per spiare attivisti per i diritti umani, politici e giornalisti di tutto il mondo… che però è “la prima azienda del settore della cyberintelligence a pubblicare un report sulla trasparenza e la responsabilità”, quindi tutto bene.

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WAR – La geopolitica dei domini – 03/07/2021

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Press TV dopo il blocco statunitense.

La località di Reston, non molto distante da Washington D.C., non ha molto da offrire ai visitatori. A dire il vero, conta a malapena come cittadina. Eppure, è un luogo silenziosamente centrale per l’internet globale: dal 2011, da un palazzo senza particolari pretese opera VeriSign, che gestisce i registri di tutti i domini che finiscono con .com, .net e .name. Il fatto in sé potrebbe non suscitare particolare interesse: ai non addetti ai lavori non capita spesso di fermarsi a pensare alle parti che compongono un nome di dominio – l’indirizzo utilizzato per visitare un determinato sito web, come può essere www.wired.it – né tantomeno alle compagnie che ne assicurano l’adeguato funzionamento. 

A fine giugno, però, il fatto che VeriSign e il suo prezioso registro per i domini di primo livello generici (come .com e .net, appunto) abbiano la propria base proprio sul territorio statunitense è diventato all’improvviso di importanza centrale per la politica internazionale. Il 23 giugno, due giorni dopo l’elezione dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi a presidente dell’Iran, il dipartimento di Giustizia statunitense (Doj) ha deciso di bloccare oltre trenta siti internet legati al Servizio radiotelevisivo islamico iraniano – che opera in condizioni di monopolio nel paese ed è inserito nella blacklist degli attori con cui le aziende statunitensi non possono fare affari – e alla milizia sciita Kataib Hezbollah, sostenuta da Teheran.

Tra i siti colpiti si contano i canali in arabo e inglese di Al-Alam e Press Tv – che, nelle parole di Al Jazeera, “tratta prevalentemente di affari internazionali, riflettendo il modo in cui i leader iraniani vedono il mondo”, con “feroci critiche alla politica estera britannica e americana” – oltre al canale yemenita Houthi Al-Masirah Tv e al giornale online palestinese Palestine Today, vicino ad Hamas. Al posto di articoli e video, soltanto un avviso a informare gli utenti che il dominio era stato sequestrato dall’Ufficio per l’industria e la sicurezza del Dipartimento del commercio degli Stati Uniti, dall’Ufficio per l’applicazione delle esportazioni e dall’Fbi. Press Tv è tornata presto online, passando da un indirizzo .com a uno .ir, gestito da un’azienda con sede ben distante dal territorio statunitense.

L’amministrazione americana ha spiegato la mossa su due livelli: da una parte, il Doj ha affermato che questi domini, che sono stati acquistati attraverso un’autorità di registrazione statunitense, non hanno mai richiesto l’autorizzazione dell’Office of Foreign Assets Control, violando in questo modo il regime di sanzioni contro l’Iran messo in piedi dall’amministrazione Trump. A questa giustificazione formale si aggiunge un’accusa che era già stata formulata l’ottobre scorso: secondo il dipartimento di Giustizia, si tratterebbe di “componenti del governo iraniano travestiti da organi di stampa che hanno preso di mira gli Usa con campagne di disinformazione e operazioni maligne di influenza”.

L’azione non è senza precedenti: lo scorso ottobre, lo stesso Doj aveva annunciato la rimozione di quasi 100 siti web collegati alle Guardia rivoluzionaria iraniana, in linea con la strategia della massima pressione perseguita da Donald Trump. Ma arriva in un momento delicato del rapporto tra Washington e Teheran, tra l’elezione di Raisi, che è noto per la propria ostilità verso gli Stati Uniti e i loro alleati, da una parte e la sorte incerta dell’accordo sul nucleare iraniano dall’altra. 

Come ha fatto notare la giornalista Lily Hay Newman, il gesto ha delle implicazioni pericolose per la libertà d’espressione a livello internazionale. Da parte sua, il governo iraniano ha fortemente condannato il sequestro dei domini, affermando che si tratta dell’ennesimo esempio di “uno sforzo sistematico per distorcere la libertà d’espressione e mettere a tacere le voci indipendenti nel giornalismo a livello globale” e che Washington starebbe unendo le forze con Israele e Arabia Saudita “per bloccare i media pro-resistenza che denunciano i crimini degli alleati degli Stati Uniti nella regione”.

Stiamo usando tutti i mezzi internazionali e legali per agire di conseguenza, per condannare questa azione e per esporre al pubblico questa politica sbagliata degli Stati Uniti”ha commentato il direttore dell’ufficio del presidente iraniano Mahmoud Vaezi. Il che ci riporta a Reston, Virginia. Se infatti diverse testate hanno fatto notare che sequestrare un dominio .ir sarebbe stato un attacco alla sovranità della Repubblica islamica, il fatto che milioni di domini .com e .net siano custoditi su territorio statunitense fa sì che il governo federale da decenni non si faccia alcun problema a farvi valere la propria autorità. 

Già del 2012 l’edizione americana di Wired sottolineava come questo creasse delle grane internazionali. “La controversia mette in luce il controllo unico che gli Stati Uniti continuano a detenere sui componenti chiave del sistema globale dei nomi di dominio, e strappa un cerotto da uno storico punto dolente per altre nazioni”, scriveva allora David Kravets. “Una complicata rete di burocrazia e contratti dettati dal Dipartimento del Commercio firmati nel 1999 ha stabilito che i domini chiave sarebbero stati appaltati a Network Solutions, che è stata acquisita da VeriSign nel 2000. Ciò ha consolidato il controllo di tutti i più importanti domini .com e .net con un società – VeriSign – mettendo ogni sito web che utilizza uno di quegli indirizzi saldamente alla portata dei tribunali americani, indipendentemente da dove si trovano i proprietari, forse per sempre”. 

Come ha imparato da poco l’Iran, per i nemici geopolitici degli Stati Uniti questo significa giocare secondo delle regole su cui non si ha alcun controllo. La tentazione di ribaltare il tavolo, costruendosi un internet tutto proprio, è dietro l’angolo.

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WAR – La Nigeria, Twitter e la repressione del dissenso – 12/06/2021

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Nel 2016, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite approvò una risoluzione non vincolante che sottolineava come “gli stessi diritti che le persone hanno offline devono essere protetti anche online”. Nel mirino della risoluzione c’era la crescente tendenza, da parte di governi più o meno autoritari, a limitare l’accesso a internet dei propri cittadini, interrompendo le connessioni o bloccando interi siti. 

Per amara ironia delle istituzioni internazionali, tra i promotori della risoluzione c’era la Nigeria dell’allora neoeletto Muhammadu Buhari, che oggi sui diritti (digitali e non) dei propri cittadini sembra avere tutta un’altra opinione. Il 4 giugno, da un momento all’altro, il governo di Buhari ha deciso di bandire con effetto immediato Twitter dal proprio paese. La scelta, improvvisa ma in linea con l’erosione della libertà d’espressione osservata in Nigeria negli ultimi anni, è arrivata dopo che Twitter ha rimosso un post del presidente su alcuni disordini che stanno interessando il sud-est del paese, già teatro di una sanguinosa guerra civile tra 1967 e 1970, a cui partecipò lo stesso Buhari come comandante dell’esercito nigeriano. “Molti di quelli che si stanno comportando male oggi sono troppo giovani per comprendere la distruzione e la perdita di vite umane della guerra civile”, ha scritto l’ex militare. “Ma noi che in guerra ci siamo stati li tratteremo in modo che capiscano”. Considerato che in molti ricordano l’uccisione sistematica e intenzionale delle persone di minoranza etnica Igbo prima e durante il conflitto come un tentativo di genocidio, il tweet di Buhari ha allarmato moltissimi osservatori, portando infine Twitter a decidere di rimuoverlo in base al regolamento sui “comportamenti abusivi” sulla piattaforma.

La rimozione sembra essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per il governo nigeriano, che dal 2019 lavora ad un progetto di legge che renderebbe possibile punire chiunque pubblichi contenuti “che minacciano la sicurezza nazionale” o che “potrebbero diminuire la fiducia del pubblico nel governo” sui social. Al contrario dell’India di Modi, che sta cercando di far piegare le grandi piattaforme della Silicon Valley con atti intimidatori e leggi sempre più repressive senza però decidersi a bandirle come ha fatto invece per social cinesi come TikTok, Buhari ha optato per l’opzione nucleare. 

In Nigeria Twitter conta 40 milioni di utenti. Come in gran parte del resto del mondo, ha un’influenza sproporzionata sull’opinione pubblica nazionale rispetto alla propria taglia perché è il social preferito da giornalisti, accademici e attivisti. Non a caso, è su questa piattaforma che nell’ottobre 2020 sono rimbalzate le notizie sul crescente movimento di protesta contro le violenze della polizia nigeriana #EndSARS, che ha creato senza dubbio più di un grattacapo al governo. Per giustificare la scelta, il ministro dell’Informazione e della cultura nigeriano ha citato “l’uso persistente della piattaforma per attività in grado di minare l’esistenza della Nigeria”, e le istituzioni si starebbero attrezzando per punire chi riesce comunque ad accedervi grazie a Vpn. La National Broadcasting Commission ha anche ordinato a tutte le stazioni di smettere di usare Twitter, minacciando di sospendere la loro licenza in caso contrario e affermando che “sarebbe antipatriottico per qualsiasi emittente in Nigeria continuare a patrocinare Twitter come fonte di informazioni dopo che è stato sospeso”.

Ottima cartina tornasole della gravità dell’accaduto è il commento di Donald Trump, che si è congratulato con Buhari per la propria decisione: “Più paesi dovrebbero vietare Twitter e Facebook perché non consentono discussioni libere e aperte – tutte le voci dovrebbero essere ascoltate”. L’ex presidente, bandito da Twitter a vita e da Facebook almeno per due anni, ha poi aggiunto: “Forse avrei dovuto farlo anch’io mentre ero presidente. Ma Zuckerberg continuava a chiamarmi e a venire a cena alla Casa Bianca dicendomi quanto fossi bravo”. Naturalmente, checché ne dica Trump, il diritto umano fondamentale all’espressione (che è protetto dalla Costituzione nigeriana alla sezione 39) dovrebbe protegge le persone dalla censura non di aziende private, ma governativa. Proprio quella censura che ha portato la Nigeria a restringere l’accesso prima a siti dell’opposizione, come quello del gruppo Feminist Coalition, e ora a Twitter. 

Il 6 giugno, le ambasciate di Canada, Unione Europea, Irlanda, Regno Unito e Stati Uniti hanno condannato la decisione, sottolineando che misure simili “inibiscono l’accesso alle informazioni proprio in un momento in cui la Nigeria ha bisogno favorire il dialogo inclusivo e l’espressione delle opinioni”. Non che servisse ribadirlo: un rappresentante del paese doveva pur essere presente quando è stata approvata quella famosa risoluzione non vincolante tra le stanze dell’Onu, cinque anni fa.

La scelta di questi giorni ha svuotato da un giorno all’altro un’enorme piazza in cui la cittadinanza si trovava a chiedere alle istituzioni di assumersi le proprie responsabilità, senza nemmeno bisogno di alzare un manganello. E, come è spesso il caso anche per le violazioni dei diritti umani più clamorose, senza possibilità d’appello.

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WAR – Cyberbalcani – 21/05/2021

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Come scoppiano le polveriere.

Soltanto negli ultimi dieci giorni, mentre tra la Striscia di Gaza e Israele tornavano a volare i missili e le tensioni raggiungevano livelli inediti, il procuratore generale israeliano ha chiesto a Facebook, TikTok, Instagram, Twitter e YouTube di rimuovere almeno 1340 “contenuti terroristici” per ragioni di sicurezza interna. 

Poche settimane prima, il primo ministro dell’India Narendra Modi tornava a intimare le piattaforme di rimuovere contenuti critici della gestione della pandemia da parte del suo governo, nascondendosi dietro all’idea che generassero “panico attorno alla situazione nel paese”, dopo che già all’inizio dell’anno si era scontrato con Twitter, arrivando a minacciare di bandire la compagnia dall’India. 

E, dall’Unione europea agli Stati Uniti, anche da un punto di vista legale si prospettano mesi durissimi per le grandi compagnie della Silicon Valley, assediate da disegni di legge e procedimenti che sperano di erodere il loro strapotere.

Insomma: per primo c’è arrivato il governo cinese, che già negli anni Novanta ha cominciato a cercare un modo di impedire ai propri cittadini di accedere all’infinità di informazioni che era possibile trovare online. Ma ogni giorno che passa, il campo delle istituzioni tradizionali che si svegliano da un lungo sonno, si rendono conto di aver sottovalutato la forza delle piattaforme digitali e cercano di riaffermare il proprio potere si affolla un po’ di più. Anche perché, come ha spiegato Adam Segal del Center on Foreign Relations, “l’internet libero e aperto sembra avvantaggiare un po’ troppo gli interessi economici e di sicurezza statunitensi”.


Nell’utopia immaginata dai primi pionieri digitali, però, non doveva andare così: il web doveva fuggire dalle logiche geopolitiche e permettere a chiunque di accedere all’interezza dello scibile umano. Nel 1996, nella sua storica Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio, uno dei membri fondatori della Electronic Frontier Foundation, John Perry Barlow, si riferiva ai governi come a “stanchi giganti di carne e acciaio”, chiedendo loro di lasciare stare i cittadini del cyberspazio. “Stiamo creando un mondo in cui tutti possono entrare senza privilegi o pregiudizi accordati dalla razza, dal potere economico, dalla forza militare o dalla stazione di nascita”, scriveva Barlow. “Stiamo creando un mondo in cui chiunque, ovunque possa esprimere le proprie convinzioni, anche le più singolari, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo. I vostri concetti legali di proprietà, espressione, identità, movimento e contesto non si applicano a noi. Sono tutti basati sulla materia. E qui non c’è materia”. 

Venticinque anni dopo, quegli stanchi giganti di carne e acciaio la pensano in modo molto differente. E sembrano avere sempre meno paura del caos che potrebbe emergerne. 

Attivisti ed esperti lo chiamano splinternet. Un altro nome, più evocativo, è cyberbalcanizzazione – rifacendosi al termine utilizzato dagli studiosi di relazioni internazionali per parlare della disintegrazione degli Stati multietnici in entità politiche più piccole, accompagnata spesso da violenza e autoritarismo. A ben guardare, la salute dell’internet globale oggi non è poi molto migliore di quella della Jugoslavia dopo la morte di Tito, pronta a sfaldarsi lungo faglie nazionali, politiche o religiose. 

Dalla Cina del Grande firewall agli Stati Uniti che minacciano di bandire TikTok per ragioni neanche tanto nascostamente geopolitiche, la frammentazione dell’internet globale in una serie di internet più piccoli, amministrati a livello nazionale, allineati lungo i confini geopolitici è già realtà. Ad accelerare questo sfaldamento sono tecnonazionalismi, ragioni commerciali e legali, interessi nazionali divergenti, la necessità di proteggere i preziosi dati dei propri cittadini o di controllarli. Da un punto di vista pratico, un mondo in cui l’accesso ai servizi e alle informazioni online è determinato dal governo sotto cui si vive. Con conseguenze inquietanti per il libero accesso alle informazioni, la libertà di espressione e la sorveglianza governativa, ma anche per quella parte del commercio globale che dipende ormai dal web. 

Insomma, ci stiamo dolorosamente svegliando dal sogno che ha accompagnato gli attivisti digitali fin dal secolo scorso. Scoprendo che, nella pratica, la fisicità che sta dietro alla rete – i cavi, i server, i ricetrasmettitori, le sedi delle compagnie e i loro dipendenti – ne fa l’ennesimo campo di battaglia su cui si gioca una partita geopolitica globale senza esclusione di colpi, che passa dai razzi di Israele e Palestina e arriva in ogni angolo del mondo in cui c’è uno smartphone pronto a connettersi.