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WAR – La geopolitica dei domini – 03/07/2021

⚠️ L’articolo seguente è apparso per la prima volta su WAR, newsletter settimanale che scrivo insieme a Gabriele Cruciata e Simone Fontana per Wired Italia. Per leggere le nuove puntate ogni settimana, potete iscrivervi qui. ⚠️

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Press TV dopo il blocco statunitense.

La località di Reston, non molto distante da Washington D.C., non ha molto da offrire ai visitatori. A dire il vero, conta a malapena come cittadina. Eppure, è un luogo silenziosamente centrale per l’internet globale: dal 2011, da un palazzo senza particolari pretese opera VeriSign, che gestisce i registri di tutti i domini che finiscono con .com, .net e .name. Il fatto in sé potrebbe non suscitare particolare interesse: ai non addetti ai lavori non capita spesso di fermarsi a pensare alle parti che compongono un nome di dominio – l’indirizzo utilizzato per visitare un determinato sito web, come può essere www.wired.it – né tantomeno alle compagnie che ne assicurano l’adeguato funzionamento. 

A fine giugno, però, il fatto che VeriSign e il suo prezioso registro per i domini di primo livello generici (come .com e .net, appunto) abbiano la propria base proprio sul territorio statunitense è diventato all’improvviso di importanza centrale per la politica internazionale. Il 23 giugno, due giorni dopo l’elezione dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi a presidente dell’Iran, il dipartimento di Giustizia statunitense (Doj) ha deciso di bloccare oltre trenta siti internet legati al Servizio radiotelevisivo islamico iraniano – che opera in condizioni di monopolio nel paese ed è inserito nella blacklist degli attori con cui le aziende statunitensi non possono fare affari – e alla milizia sciita Kataib Hezbollah, sostenuta da Teheran.

Tra i siti colpiti si contano i canali in arabo e inglese di Al-Alam e Press Tv – che, nelle parole di Al Jazeera, “tratta prevalentemente di affari internazionali, riflettendo il modo in cui i leader iraniani vedono il mondo”, con “feroci critiche alla politica estera britannica e americana” – oltre al canale yemenita Houthi Al-Masirah Tv e al giornale online palestinese Palestine Today, vicino ad Hamas. Al posto di articoli e video, soltanto un avviso a informare gli utenti che il dominio era stato sequestrato dall’Ufficio per l’industria e la sicurezza del Dipartimento del commercio degli Stati Uniti, dall’Ufficio per l’applicazione delle esportazioni e dall’Fbi. Press Tv è tornata presto online, passando da un indirizzo .com a uno .ir, gestito da un’azienda con sede ben distante dal territorio statunitense.

L’amministrazione americana ha spiegato la mossa su due livelli: da una parte, il Doj ha affermato che questi domini, che sono stati acquistati attraverso un’autorità di registrazione statunitense, non hanno mai richiesto l’autorizzazione dell’Office of Foreign Assets Control, violando in questo modo il regime di sanzioni contro l’Iran messo in piedi dall’amministrazione Trump. A questa giustificazione formale si aggiunge un’accusa che era già stata formulata l’ottobre scorso: secondo il dipartimento di Giustizia, si tratterebbe di “componenti del governo iraniano travestiti da organi di stampa che hanno preso di mira gli Usa con campagne di disinformazione e operazioni maligne di influenza”.

L’azione non è senza precedenti: lo scorso ottobre, lo stesso Doj aveva annunciato la rimozione di quasi 100 siti web collegati alle Guardia rivoluzionaria iraniana, in linea con la strategia della massima pressione perseguita da Donald Trump. Ma arriva in un momento delicato del rapporto tra Washington e Teheran, tra l’elezione di Raisi, che è noto per la propria ostilità verso gli Stati Uniti e i loro alleati, da una parte e la sorte incerta dell’accordo sul nucleare iraniano dall’altra. 

Come ha fatto notare la giornalista Lily Hay Newman, il gesto ha delle implicazioni pericolose per la libertà d’espressione a livello internazionale. Da parte sua, il governo iraniano ha fortemente condannato il sequestro dei domini, affermando che si tratta dell’ennesimo esempio di “uno sforzo sistematico per distorcere la libertà d’espressione e mettere a tacere le voci indipendenti nel giornalismo a livello globale” e che Washington starebbe unendo le forze con Israele e Arabia Saudita “per bloccare i media pro-resistenza che denunciano i crimini degli alleati degli Stati Uniti nella regione”.

Stiamo usando tutti i mezzi internazionali e legali per agire di conseguenza, per condannare questa azione e per esporre al pubblico questa politica sbagliata degli Stati Uniti”ha commentato il direttore dell’ufficio del presidente iraniano Mahmoud Vaezi. Il che ci riporta a Reston, Virginia. Se infatti diverse testate hanno fatto notare che sequestrare un dominio .ir sarebbe stato un attacco alla sovranità della Repubblica islamica, il fatto che milioni di domini .com e .net siano custoditi su territorio statunitense fa sì che il governo federale da decenni non si faccia alcun problema a farvi valere la propria autorità. 

Già del 2012 l’edizione americana di Wired sottolineava come questo creasse delle grane internazionali. “La controversia mette in luce il controllo unico che gli Stati Uniti continuano a detenere sui componenti chiave del sistema globale dei nomi di dominio, e strappa un cerotto da uno storico punto dolente per altre nazioni”, scriveva allora David Kravets. “Una complicata rete di burocrazia e contratti dettati dal Dipartimento del Commercio firmati nel 1999 ha stabilito che i domini chiave sarebbero stati appaltati a Network Solutions, che è stata acquisita da VeriSign nel 2000. Ciò ha consolidato il controllo di tutti i più importanti domini .com e .net con un società – VeriSign – mettendo ogni sito web che utilizza uno di quegli indirizzi saldamente alla portata dei tribunali americani, indipendentemente da dove si trovano i proprietari, forse per sempre”. 

Come ha imparato da poco l’Iran, per i nemici geopolitici degli Stati Uniti questo significa giocare secondo delle regole su cui non si ha alcun controllo. La tentazione di ribaltare il tavolo, costruendosi un internet tutto proprio, è dietro l’angolo.

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