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WAR – La frottola della censura dei conservatori – 07/08/2021

⚠️ L’articolo seguente è apparso per la prima volta su WAR, newsletter settimanale che scrivo insieme a Gabriele Cruciata e Simone Fontana per Wired Italia. Per leggere le nuove puntate ogni settimana, potete iscrivervi qui. ⚠️

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(Credits: Unsplash)

Le grandi piattaforme di social media sopprimono ingiustamente le voci conservatrici? Da quando, nel 2016, degli ex dipendenti di Facebook hanno paventato la possibilità che alcuni news curators che lavoravano per l’ormai defunta funzione Notizie in tendenza della piattaforma ignorassero volutamente articoli provenienti da testate di destra, questo mito non ha fatto che propagarsi. L’ex presidente Usa Donald Trump ha giocato con questa convinzione per anni – ben prima di essere bandito dai principali social network in seguito all’attacco al Congresso del 6 gennaio – cavalcando spesso, su Twitter e nei propri discorsi, l’onda di indignazione conservatrice contro delle compagnie che avrebbero “il potere incontrollato di censurare, restringere, editare, modificare, nascondere e alterare praticamente ogni forma di comunicazione”. 

La verità, come sempre accade, è un po’ più complessa – e confligge con la convinzione, condivisa dal 90% dei repubblicani statunitensi (e non si sa da quanti altri nel mondo) che le tech company censurino intenzionalmente le posizioni conservatrici. Uno studio approfondito del Center for Business and Human Rights della New York University, pubblicato a inizio 2021, mostra infatti non solo che non c’è alcuna prova del fatto che i grandi social network sopprimano sistematicamente i contenuti di destra, ma anche che, al contrario, ha amplificato a dismisura le voci conservatrici, portandole a raggiungere un pubblico senza precedenti. A ciò si aggiunge il fatto che i vari Ceo delle grandi compagnie della Silicon Valley hanno più volte partecipato a incontri privati con esponenti importanti della destra statunitense proprio per mostrarsi attenti alle loro istanze.

La convinzione che esista una discriminazione anticonservatrice è di per sé una forma di disinformazione, una falsità senza prove affidabili a sostenerla”, conclude il rapporto. “Nessuno studio affidabile su larga scala ha determinato che i contenuti conservatori vengano rimossi per ragioni ideologiche o che le ricerche vengano manipolate per favorire gli interessi liberali”.

Una conclusione che non sembra interessare al numero crescente di “democrazie imperfette” – per usare la terminologia del Democracy Index – che negli ultimi mesi hanno cominciato ad introdurre leggi che intendono punire le piattaforme per questo inesistente bias anti-conservatore. A febbraio, un parlamentare brasiliano appartenente al partito di estrema destra Partido Social Liberal ha presentato un disegno di legge che mira a punire legalmente i moderatori delle grandi piattaforme che rimuovono contenuti, bannano profili o segnalano post, sostanzialmente per impedire loro di esercitare attività editoriali. Soltanto qualche giorno dopo, Jair Bolsonaro stesso minacciava di sanzionare Facebook per via della rimozione di alcuni contenuti dal proprio account – approfittandone anche per attaccare la stampa, dicendo che “la cosa giusta da fare” sarebbe piuttosto rimuovere i post dei principali media brasiliani.

Ancora più diretto l’approccio di Ungheria e Polonia. Già a dicembre 2020, il ministro della Giustizia polacco aveva annunciato di star lavorando a un disegno di legge “volto a rafforzare la libertà di parola degli utenti di internet”, proteggendoli dagli “abusi di gigantesche società di internet”, che ha accusato apertamente di censura. La bozza è stata pubblicata a febbraio, dopo l’espulsione di Trump da Facebook e Twitter, e vuole riscrivere le procedure di rimozione dei contenuti che violano gli standard delle piattaforme: il disegno di legge, infatti, istituirebbe un organismo statale chiamato Consiglio per la libertà di espressione, a cui fare appello in caso la rimozione di un proprio post sia considerata ingiusta. Se le piattaforme dovessero rifiutarsi di seguire le indicazioni del Consiglio, potrebbero essere multate fino a 11 milioni di euro. Le ragioni del governo polacco sono state rese evidenti da Sebastian Kaleta, viceministro della giustizia polacco, secondo cui “i moderatori anonimi dei social media spesso censurano opinioni che non violano la legge ma che criticano soltanto l’agenda della sinistra. Stiamo cercando di proteggere i nostri cittadini dalla loro censura”. Altrettanto chiaro è stato il primo ministro Mateusz Morawiecki, secondo cui la legge è necessaria perché le piattaforme “hanno introdotto dei propri standard di politically correctness e combattono chi vi si oppone”.

Va ancora più in là la ministra della Giustizia ungherese Judit Varga, che ha a sua volta cominciato a lavorare a misure che combattano questo famigerato bias anticonservatore. Per dirla con il Financial Times, “mentre molti paesi dell’Europa occidentale stanno cercando di combattere la diffusione della retorica violenta di estrema destra o estremista basata sulla religione, gli stati dell’Europa orientale affermano di essere intenti a combattere quella che la Varga ha definito una censura deliberata e ideologica sui social media”. Secondo Varga, le piattaforme limiterebbero attivamente “la visibilità di opinioni cristiane, conservatrici e di destra”, manipolando così le elezioni. Sorvoliamo sull’ironia del fatto che in tutti i casi finora noti di manipolazione delle elezioni passate anche attraverso i social network, dagli Stati Uniti alla Brexit, a vincere è stata proprio la destra.

Leggi simili suonano quanto meno in malafede alla luce degli obiettivi assist che i social network continuano a dare da anni alla destra internazionale. Ma questo non vuol certo dire che le attuali pratiche di moderazione dei contenuti online non siano ampiamente migliorabili. Per Paul Barrett, autore del report della New York University, il progresso passa però per una maggiore, effettiva trasparenza attorno alle politiche di moderazione, accompagnata da un maggior numero di moderatori umani (e non algoritmici) e funzioni che permettano agli utenti di decidere quanto stringente vogliono che sia la moderazione dei contenuti che vedono – come ha fatto di recente Instagram. “Solo mettendo dietro di noi certe false convinzioni possiamo iniziare a perseguire seriamente quell’agenda”ha concluso.

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WAR – Non vorrei mai essere troppo trasparente – 24/07/2021

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(Credits: Unsplash)

Sono passati sei anni da quando Facebook, in una delle sue infinite acquisizioni, ha incorporato CrowdTangle. L’idea dietro al potente strumento di social listening, utilizzato ampiamente da giornalisti, ricercatori e altri specialisti dei media, era quella di permettere di monitorare in tempo reale i post e gli account più influenti su Facebook, Instagram, Reddit e Twitter, individuando i temi più caldi della giornata, i post che sono circolati di più, gli articoli più condivisi. Con enorme sgomento di Facebook, però, i giornalisti si sono presto accorti di un’altra virtù di CrowdTangle: il fatto che sia, ad oggi, uno dei pochissimi modi di sbirciare nella scatola nera di metriche della piattaforma social più usata al mondo. Insomma, un involontario strumento di trasparenza.

Soprattutto durante la presidenza Trump, da questo grande potere sono derivate grandi seccature per Facebook: il giornalista del New York Times Kevin Roose, per esempio, gestisce ormai da anni un account Twitter in cui ogni giorno condivide i 10 post pubblici che hanno generato più engagement su Facebook nelle scorse 24 ore, mostrando a tutti come, quasi sempre, siano commentatori e figure pubbliche molto conservatrici a ottenere la maggior attenzione sulla piattaforma. Fior fiore di articoli giornalistici e pubblicazioni accademiche negli ultimi anni hanno esaminato i dati di CrowdTangle per giungere alla conclusione che la piattaforma è inondata di contenuti di destra

Facebook ha provato a rigirare la questione per fare una figura migliore, affermando a più riprese che la metrica più importante a cui guardare per capire quali sono i post che vanno meglio su Facebook sarebbe il reach (ovvero il numero totale di persone che hanno visto un post), e non l’engagement (che comprende tutte le azioni intraprese dagli utenti, inclusi like, commenti e condivisioni). Peccato che quando il team di CrowdTangle ha provato a vedere se riordinando i post più popolari su Facebook in base al reach sarebbe cambiato qualcosa, i conservatori sono risultati comunque in cima alla classifica. Insomma, per dirla con le parole di Nick Clegg, il vicepresidente degli Affari Globali della compagnia, “i nostri stessi strumenti stanno aiutando i giornalisti a consolidare una narrazione negativa”.

Che fare? Tra il farsi qualche domanda sul perché i propri algoritmi favoriscano sistematicamente post incendiari e nascondere tutto sotto il tappeto, Facebook sembra aver optato per… azzoppare CrowdTangle, emarginandone il Ceo e trasferendo gran parte del team. L’idea è quella di sostituire la trasparenza sconveniente dello strumento con dei report periodici pubblicati dall’azienda. Insomma, per dirla con Brian Boland, ex pezzo grosso di Facebook che ha lasciato la compagnia per il proprio approccio miope alla trasparenza, “la dirigenza più anziana dell’azienda non vuole investire nella comprensione dell’impatto che hanno i suoi prodotti principali” e “non vuole rendere disponibili i dati affinché altri possano svolgere questo duro lavoro e metterli di fronte alle loro responsabilità”. 

La stessa morale della favola si evince da un’altra storia che vede come protagonista Facebook in questi giorni: il braccio di ferro tra la compagnia e l’amministrazione Biden, che ha pubblicamente accusato la piattaforma di star peggiorando la pandemia permettendo alla disinformazione di proliferare. Facebook ha negato la propria responsabilità, affermando che starebbe piuttosto aiutando a salvare vite grazie ai propri sforzi a favore delle campagne vaccinali. Ma la questione rimane la stessa: l’azienda di Zuckerberg è l’unica ad avere accesso ai dati che confermerebbero o smentirebbero questa affermazione, e non sembra avere alcuna intenzione di renderli disponibili. Sempre secondo Boland, Facebook ha “senza ombra di dubbio” tutte le informazioni su come e dove si diffondano i contenuti più problematici, ma “non ha mostrato alcun desiderio di essere più trasparente”. 

Il che ci pone di fronte a una domanda scomoda riguardante il concetto stesso di trasparenza, che le grandi piattaforme tecnologiche hanno cominciato ad abbracciare dopo che Edward Snowden ha svelato la campagna di sorveglianza di massa da parte dell’Nsa nel 2013. Oggi, praticamente ogni piattaforma pubblica ha un proprio transparency report in cui racconta al pubblico come ha gestito alcune delle questioni più spinose – come la gestione della privacy, la lotta all’hate speech e alla disinformazione, ma anche le richieste di rimozione dei contenuti da parte dei governi. TikTok ha addirittura aperto dei centri fisici dedicati alla trasparenza. 

Cosa si intenda però con questa parola è un altro discorso. Come scrive Charlie Warzel, per la dirigenza delle piattaforme, la trasparenza non è che una strategia comunicativa. Per tutti gli altri, invece, è una questione di accountability, legata a doppio filo al fatto che le piattaforme raccolgono in modo opaco immense quantità di dati personali senza assumersi quasi alcuna responsabilità nei confronti del pubblico. Sta a ricercatori, attivisti digitali e politici esercitare pressione affinché le due definizioni coincidano sempre di più. Altrimenti, continueremo a trovarci davanti a realtà come lo sventramento di CrowdTangle. O peggio, il ridicolo report sulla trasparenza di compagnie come l’Nso Group, l’azienda di sorveglianza israeliana i cui software vengono utilizzati per spiare attivisti per i diritti umani, politici e giornalisti di tutto il mondo… che però è “la prima azienda del settore della cyberintelligence a pubblicare un report sulla trasparenza e la responsabilità”, quindi tutto bene.